the chemestry between us

L’aggettivo naturale applicato ad un cosmetico vuol dire poco. Per esempio il petrolio è naturale, ma se penso a una crema a base di petrolio mi vengono in mente le immagini del cormorano pucciato nel greggio durante la prima guerra del Golfo (ho una certa età, scusatemi) e penso che nessuna persona sana di mente vorrebbe usare del petrolio nella sua routine cosmetica. Il fatto che spesso lo facciamo inconsapevolmente è un altro paio di maniche.

Ma anche l’aggettivo chimico, di per sé vuol dire poco: produciamo reazioni chimiche in molti nostri comportamenti quotidiani (cucinare ne è un esempio lampante). Possono trovarsi, in seguito ad un trattamento, parecchi principi attivi che fanno un gran bene alla nostra pelle (non esistono pozzi di acido ialuronico, in natura. Esiste all’interno delle nostre cellule epiteliali, ma quello che trovate nelle creme chiaramente è un prodotto di sintesi).

Vi dico quella che è la mia idea in merito prendendo ad esempio la mia vita familiare:

Quando ero piccola (fino a 18 anni) io mia madre e mia nonna abbiamo vissuto insieme. E condiviso il bagno.

Mia nonna, classe 1919, era molto essenziale nella sua routine di bellezza: mai truccata (anche se le fonti mi dicono che negli anni ’50 avesse un debole per la cipria Coty, come la mamma cattiva di “profumi e balocchi”), i suoi lussi erano i capelli (permanente da barboncino e relativi bigodini, trattatti dal parrucchiere un paio di volte alla settimana) e dei fetentissimi profumi da pelliccia-che fortunatamente da aprile ad ottobre erano sostituiti dalla colonia 4711; per il resto a lei bastavano sapone, amido e borotalco. Non parliamo di una povera contadina, ma di una signora benestante che aveva un emporio (e cosmetici in grande quantità a disposizione), a cui però erano sufficienti quei tre.

Fino a una quarantina di anni fa l’industria cosmetica rispondeva a dei bisogni piuttosto semplici con dei prodotti piuttosto semplici.

Se povera nonna ne aveva tre, mia madre almeno dieci volte tanto. Era- ed è ancora- la classica persona che crede nelle commesse di profumeria come si crede a dei profeti. E’ passata per ogni moda cosmetica che si è affacciata in questa parte di emisfero dagli anni ’60 ad oggi, compresi il primo fondotinta in stick di Max Factor (“Era bellissimo! Aveva la consistenza del cemento a presa rapida”) e il primo siero di Elizabeth Arden.

A partire da quando? Boh, forse dalla fine degli anni ’70- l’industria cosmetica ha iniziato a fare quella che volgarmente chiamiamo supercazzola: avendo già i bisogni primari soddisfatti e dovendo implementare i profitti cosa si fa? Si creano nuovi bisogni, ovvio. Quindi nuovi prodotti, che avranno un minimo di diversità dalla versione precedente, che saranno stati pubblicizzati con fanfare e claim tipo “la rivoluzione dell’eterna giovinezza” e che, tempo sei mesi, si confonderanno con gli altri. Come succede coi detersivi (ehi! Ma quelli che fabbricano i detersivi sono gli stessi che fabbricano creme e shampoo). Con questo non voglio dire che la differenziazione presente nei vari prodotti sia sempre inutile, ma lo è nella maggioranza dei casi. Vi sarà successo di vedere uno shampoo per capelli ricci e uno per capelli lisci uguali per i primi tre quarti di lista degli ingredienti. E vi assicuro che non sono le cose presenti nell’ultimo quarto che modificano la performance.

Il problema non è solo l’inutilità, ma che per massimizzare i profitti spesso si utilizzano materie prime che possono dare dei problemi a chi è predisposto (poi ci sono quelle che, come dice una che conosco, “nella loro vita precedente sono state dei ceri votivi, fatte interamente di paraffina” a cui i siliconi, come si dice a Roma, je rimbarzano. Beate loro). Non parlo volutamente del problema dell’inquinamento e dei test sugli animali, perché in quel contesto ciascuno di noi ha la propria sensibilità e aprirei parentesi lunghissime. Ma se ne parlerà, non vi preoccupate.

 

E le erboristerie? Che ci stanno a fare allora?

Domanda lecita che mi sono fatta anche io, quando ho vagliato il mio bellissimo balsamo al fango del mar morto che compravo dalla mia erborista e che costava quanto un chilo di tartufo bianco (e più o meno puzzava altrettanto). Io ero nel giusto, non finanziavo multinazionali puzzone che inquinavano i mari e testavano sugli animali. Ma il mio bellissimo balsamo fatto dagli oompa loompa di un kibbutz minore della Galilea aveva esattamente la stessa struttura di un Ultra Dolce qualsiasi che potevo comprare al primo supermercato che incontravo sul mio cammino.

Spesso le erboristerie sono popolate da questo genere di prodotti, che ha scritto naturale in ogni angolo dell’etichetta, ma che replicano la struttura di un prodotto di profumeria. Perché?

Io mi sono data una risposta molto semplice a riguardo: gli erboristi non sono dei dermatologi e neanche dei farmacisti. Hanno studiato per vendere erbe e le vendono bene-nella stragrande maggioranza dei casi, non cosmetici finiti. Non hanno la formazione che serve per capire bene come è strutturato un cosmetico (che del resto non hanno neanche le commesse di profumeria, ve lo dico perché conosco la categoria piuttosto bene, facendone parte). E poi sono venditori, soggetti a proporre quello che può avere più appeal commerciale e che può procurargli più profitto (l’esempio di Anita Roddick, fondatrice del Body Shop, è lampante: è passata da essere nostra signora dei fricchettoni con i suoi negozi in cui si riciclava tutto, poi è bastato aumentare i punti vendita che ti ritrovi acquisito da L’Oreal e quotato in borsa).

La dicitura “prodotto naturale” purtroppo è vaga e poco reggimentata: non esiste un disciplinare unico a livello europeo per cosmetici effettivamente naturali, ci sono vari e diversi bollini di qualità (Icea, Aiab, Buav) ma a volte i costi per le certificazioni sono onerosi e spesso i produttori rinunciano di avvalersene. L’unica è leggere bene le etichette e imparare cosa tolleriamo bene e cosa no.

 

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